Nel Tibet non fu invasione imperialista cinese?

Buongiorno, ho letto con interesse la vostra risposta a un lettore a questo indirizzo
http://www.pmli.it/articoli/2015/20150604_23L_dialogo.html
Siccome penso che voi, come me, siate coerenti e non cercate scappatoie, vorrei che allora spendiate due parole nel giudicare l'invasione imperialista cinese al popolo sovrano del Tibet. Come la conciliate con quanto avete detto sopra?
Spero che non cercherete una scusa e una piroetta lessicale atta a fare un'eccezione e giustificarla usando la tattica tipica della sporca diplomazia burocratica che primeggia oggigiorno in gran parte delle nostre società “democratiche”? In qual caso ne sarei profondamente deluso.
Distinti saluti.
Maximiliano Herrera, via e-mail
 
In quel Dialogo con i lettori de Il Bolscevico n. 23/2015 rispondevamo a chi ci aveva posto in sostanza la domanda: “Non pensate che la guerra possa e debba essere anche un utile mezzo di risoluzione dei problemi internazionali”? E rifacendoci al principio della distinzione marxista-leninista tra guerre giuste e guerre ingiuste, magistralmente sintetizzato da Mao, spiegavamo che “applicare questo insegnamento all'attuale situazione internazionale porta a definire ingiuste tutte le guerre imperialiste, neocolonialiste e in generale di aggressione e invasione di un Paese nei confronti di altri Paesi e popoli; e ciò vale indipendentemente dai pretesti politici, giuridici, morali e finanche 'umanitari' con cui tali guerre vengono ammantate da chi le promuove e le mette in atto. Sono da considerarsi invece giuste le guerre di difesa dei Paesi e dei popoli aggrediti e le lotte di liberazione nazionale dall'imperialismo, dal neocolonialismo e da tutte le ingerenze straniere, indipendentemente dalle idee politiche e dalle concezioni religiose di chi guida queste lotte”.
Nel caso specifico del Tibet, però, non si può accettare a scatola chiusa la falsità storica ammannita dalle fonti filoimperialiste e scambiare la sua liberazione pacifica – un processo che ha richiesto molti anni, iniziato nel 1950 e concluso con la sua costituzione in Regione autonoma nel 1965 – con un'aggressione imperialista da parte della Repubblica popolare cinese guidata da Mao; così come non si può scambiare il fallito tentativo insurrezionale del 1959 da parte della casta feudale tibetana, guidata dal Dalai Lama e finanziata e fomentata dagli imperialisti Usa e britannici, per una guerra popolare di resistenza ad un'aggressione da parte di una potenza straniera. E questo per molti motivi.
In primo luogo perché il Tibet ha innegabili legami storici con la Cina, di cui era stato una provincia fino alla fine dell'800, quando l'imperialismo britannico tentò prima di annetterlo direttamente al suo impero coloniale (India), e poi, fallito questo piano per la fiera resistenza della popolazione, fomentò in tutti i modi, appoggiandosi alle caste religiose reazionarie, la disgregazione del Paese e il distacco dalla Cina per mantenerlo comunque sotto il suo controllo. Mentre nel 1949, avvicinandosi la sconfitta del Kuomintang e la vittoria di Mao, agli inglesi subentrarono gli imperialisti americani col piano di fare del Tibet una seconda Taiwan staccandolo dalla Cina e installandovi un governo anticomunista.
In secondo luogo perché dopo la vittoria del 1949 l'Esercito popolare cinese (Epl) avrebbe potuto spazzare via in pochi giorni il governo reazionario del pugno di 60 mila nobili ed ecclesiastici che sfruttavano la restante parte della popolazione di 1,2 milioni di persone che vivevano in condizioni di schiavitù feudale; e liberare subito il Tibet, ripristinando il suo posto storico di provincia autonoma in seno alla nuova Repubblica popolare cinese. E tuttavia nel 1950, pur facendo entrare l'Epl nella regione per sventare gli incombenti tentativi di secessione fomentati dagli imperialisti americani e britannici, il governo centrale cinese guidato da Mao si è sempre attenuto al principio che la liberazione del Tibet dovesse essere pacifica, ricercando pazientemente il consenso della popolazione, rispettando le sue istituzioni, la sua lingua, cultura e tradizioni religiose, senza far pesare la presenza dell'Epl, che doveva provvedere autonomamente per tutte le sue necessità, e qualunque arco di tempo questo processo avesse dovuto richiedere.
Tant'è vero che dopo un negoziato durato quasi un anno, il 23 maggio 1951 si arrivò alla firma di un accordo in 17 punti per la liberazione pacifica del Tibet grazie al quale il Dalai tornava a Lhasa e l'Epl entrava nella città accolto festosamente dalla popolazione. A questo accordo il governo centrale sotto la direzione di Mao si è sempre scrupolosamente attenuto. Accordo che al primo punto prevedeva esplicitamente il ritorno del Tibet “in seno alla grande famiglia della patria – la Repubblica popolare cinese”, e tra gli altri punti la collaborazione tra l'Epl e il governo tibetano, l'autonomia regionale, il rispetto della lingua, della religione e dei monasteri, lo sviluppo dell'agricoltura e delle altre attività economiche, le riforme senza alcuna costrizione ecc.; e persino la non perseguibilità dei funzionari che in passato avevano collaborato con gli imperialisti e il Kuomintang, alla sola condizione che rompessero ogni relazione con essi e non intraprendessero attività di sabotaggio e di resistenza.
Semmai sono state le autorità politiche e religiose tibetane a non rispettare tale accordo, sabotandolo in tutti i modi, ordendo complotti e fomentando continui disordini incoraggiati e finanziati dall'imperialismo Usa, fino al tentativo insurrezionale reazionario del 1959, che non a caso fallì perché non ebbe il sostegno della popolazione. Non lo diciamo solo noi, questa è una verità storica ammessa oggi anche da fonti occidentali, come rivelato nel 2012 dai documenti declassificati pubblicati dal quotidiano tedesco Sueddeutsche Zeitung , secondo cui i rapporti tra il Dalai Lama e la Cia iniziarono già nel 1951, e il Pentagono finanziò, armò e addestrò in campi segreti ben 85 mila tibetani per condurre una guerriglia continua contro l'Epl.
Questo per quanto riguarda il passato, finché c'era Mao che assicurava una corretta e lungimirante politica socialista di unità nazionale della Cina nel rispetto dell'autonomia delle varie regioni del Paese. Tutt'altra situazione è invece quella di oggi, che vede la cricca revisionista, capitalista e imperialista salita al potere in Cina reprimere e schiacciare nel sangue le legittime richieste di autonomia, già garantite al tempo di Mao ma oggi negate, al pari di altre province periferiche, dal governo centrale cinese dominato solo da una spietata logica capitalista e socialimperialista.

15 luglio 2015